Stamattina
appena arrivato in ufficio, lo stesso
open space, nella stessa
grande azienda per cui lavoro
da ormai dodici anni,
non appena avviato
il pc ho trovaro
tra altre quindici, una mail
dell’ingegner Ugo Vecchi.
Non l’aveva inviata
a me solo, ma a tutti.
Diceva: quest’oggi
è il mio ultimo giorno in Azienda.
Son stati
dieci anni intensi e proficui
con voi qui in Azienda.
Per ringraziare
tutte quante le belle persone
con cui ho avuto il piacere
di lavorare,
per tutti i momenti
belli e importanti, trascorsi
qui dentro, quest’oggi
offrirò un rinfresco
in sala caffè, alle undici e trenta.
Ho tenuto a lungo
la mail aperta davanti agli occhi
non avevo la minima idea
di chi fosse l’ingegner Ugo Vecchi.
Eppure
per una decade intera io e lui
siamo usciti di casa ogni giorno
diretti
al medesimo posto.
Abbiamo passato
le stesse porte, usato
le stesse scale, gli stessi ascensori,
gli stessi cessi, gli stessi lettori
di schede magnetiche; ci siamo seduti
alla solita mensa,
lamentati senz’altro entrambi
del cibo di merda.
Ho archiviato la mail,
mi sono alzato
in piedi, nel grande open space
mi son chiesto
se Ugo Vecchi potesse
trovarsi lì intorno, quante persone
che non conosco mi vivano accanto,
esistenze
parallele alla mia, destinate
a non incontrarsi mai, se non
all’infinito.
Così
alle undici e trenta sono venuto
in sala caffè,
al tuo breve rinfresco,
ingegner Ugo Vecchi, e adesso
con in mano un bicchiere
di barbaresco, una tartina, io fisso
la tua faccia ordinaria, stringo
la tua piccola mano, fingo
stima e complicità
costruite nel tempo, capendo
dai tuoi occhi smarriti
che anche tu stai fingendo
di sapere chi sono.
Ti sorrido e comprendo
ch’è destino comune
mio, tuo, d’ogni essere umano
che siano
infinitamente di più le persone
di cui non sapremo
mai
neanche il nome.
af
4 Marzo 2015 il 21:23
La differenza tra chi scrive e chi non scrive la fanno queste cose. Intendo chissà quante persone, oggi, al rinfresco di Ugo Vecchi avranno trovato innescata nella propria mente una riflessione come questa. Non lo so. Io mi illudo spesso – o mi conforto – di essere tra i pochi ad avere questo tipo di sensibilità, ma forse è – appunto – solo un’illusione. E poi, mi chiedo, chissà quanti di questi, che si siano trovati eventualmente a dimenarsi con questo pensiero, saranno poi corsi a scrivere qualcosa. Tu ci scrivi addirittura una poesia su questo fatto o un “racconto che sembra una poesia.” Poco importa. Comunque, a volte penso questo : quelli che non scrivono vivono tanto meglio di noi scriventi. O forse no.
5 Marzo 2015 il 12:26
Una domanda vecchia almeno quanto questa società: si vive meglio con meno sensibilità, con meno consapevolezza? 😀
Come più o meno ti ho già detto, non lo so, ma io sono così. Non sono né felice, né triste di esserlo: lo sono. Vedo alcune cose in un certo modo, su alcune di queste ci scrivo, mi fa sentire bene. Altri avranno altre cose che li fanno sentire bene o male.
Quello che mi piace della scrittura è che mi ha insegnato che ci sono tanti punti di vista, che la stessa cosa si può raccontare in modi diversi, che a volte basta spostarsi un po’, di un passo soltanto, per vedere tutta una scena da un’angolazione completamente diversa, con una luce completamente diversa.
Ma anche questo non è né un bene né un male: è soltanto una cosa che faccio.
Però, ancora una volta, grazie delle tue parole 😉