“Vedi? È un giorno d’autunno”
diceva sempre mio nonno,
anche d’inverno o d’estate, fissando
le navi ormeggiate.
Stavamo in piedi,
all’ombra del faro.
Mi portava spesso
la sera sul molo
a guardare
quei colossi mollare le cime,
prendere il mare.
La mia mano di allora
aveva soltanto otto anni,
che diventavano
poco meno di cento,
stringendo la sua,
mentre parlava
con ritmo lento,
la schiena tesa, il mento
dritto nel vento, come una prua.
Indicava una nave
a caso, la gente
in piedi sul ponte, diceva:
“Devi capire, bene,
che cosa accadrà
a quelle persone. Qualcuno
si sta lasciando
dietro l’amore. Qualcuno
lo porterà
per sempre con sé
sul fondo del mare. Qualcuno
toccherà un nuovo mondo
che non vorrà
farsi toccare.”
Ascoltavo in silenzio, capivo
soltanto in parte,
mio nonno mischiava
passato e presente
realtà e finzione, così
come si mischia
un mazzo di carte.
Raccontava le vite
di amici mai avuti
partiti
in cerca di gloria
“qualcuno di loro – diceva –
è riuscito perfino
a cambiare la storia, tornando
per uccidere un re
o restando laggiù,
per farsi ammazzare,
espiando la colpa
più grande dell’uomo, quella
di continuare a sperare.”
Non credo prestasse attenzione
nelle sue narrazioni
al filo logico degli eventi.
Io a mente prendevo appunti,
e a casa scrivevo,
in un quaderno a quadretti,
tutto
quello che ricordavo
dei suoi racconti.
S’incupiva, ogni tanto,
aumentava la sua confusione.
Era allora che ripeteva
quella cosa della stagione:
“Sai, avevamo – diceva,
rivedendosi a bordo
di una nave
che non aveva mai preso – un’immensa,
stupenda paura, al momento
della partenza.
Ritti in piedi, là su quei ponti
mentre ci staccavamo
da terra eravamo
tutti quanti
fragili,
come foglie su un ramo”.
“Per questo – concludeva mio nonno –
quando salpa una nave non conta
in che stagione si è,
è un giorno d’autunno.”
Diceva cosi
in quelle sere davanti al mare
diceva così e usava il plurale,
inventando
ricordi non suoi,
che intrecciava, romanticamente
coi suoi sogni
di mancato emigrante,
o forse, chissà, era innocente
vittima d’una mente appassita
di un’insana memoria
e nei traghetti della Tirrenia, nelle grandi navi crociera
lui davvero vedeva il Sirio,
il Rex, l’Andrea Doria.
Talvolta il sole morendo
regalava uno strano
tramonto che dai colori,
diceva lui, sembrava africano.
Io non facevo domande
seguivo le navi tracciare lente
piccole onde, sparire
nell’orizzonte, sognavo
nell’ombra crescente dell’imbrunire
il giorno in cui anch’io
sarei potuto partire.

Oggi
torno ancora a quel molo
ci torno spesso, dopo il lavoro,
ci torno, ma sono solo.
Non c’è più mio nonno, io
non sono partito. Ci torno
smarrito
con in mano una birra e il quaderno
dei miei ricordi dei suoi ricordi,
per cercare di mettermi
di nuovo gli occhi
dei miei otto anni.
Qualche volta il sole regala
ancora lo stesso
strano
tramonto africano, le navi ancora
prendono il mare,
c’è sempre qualcuno,
nel vento sul ponte a salutare.
Li guardo partire e ho nostalgia
di mio nonno, dei suoi racconti
della mia mano
dentro la sua e, in generale,
di tutto ciò che non fa ritorno.
Eravamo soltanto
un insegnante e un alunno.
Ho imparato bene:
ancora oggi, per me
quando salpa una nave
è un giorno d’autunno.

af