E’ bellissima, ritta davanti a me, forte, sicura. Mi ipnotizza l’eleganza dei suoi gesti, l’armonia con cui, mentre mi parla, le sue mani disegnano dei semicerchi nell’aria; la profondità invitante dei suoi occhi neri mi rapisce, ma più di ogni altra cosa mi incantano le sue orecchie, dietro le quali ogni tanto si sistema una ciocca dei capelli neri che poi disubbidiente rifugge in avanti.
Si, più di ogni altra cosa mi piacciono le sue orecchie, piccole, delicate, piene di linee ricurve, di ombre: sembrano due conchiglie. Mi piacciono così tanto che ad ogni frenata che mi proietta leggermente verso di lei devo trattenermi dall’allungare una mano e toccarle. Avrei voglia di far scivolare le dita lungo il loro profilo dedicato, sentirne la consistenza, percorrerne il contorno, davanti e dietro. Avrei voglia di tenermi alle sue orecchie, stringerne un lobo tra l’indice e il pollice, fino a sentirlo allargarsi tra i miei polpastrelli.
Ma ancor più d’ogni particolare fisico, mi affascinano le sue parole, così intelligenti, precise e aderenti alle mie.
Non è la solita conversazione spenta e inutile da autobus, la nostra. Nessun accenno al troppo caldo, al troppo traffico, alla troppa corruzione della classe politica, questa ragazza dalla bellezza splendente che ho appena conosciuto, Veronica, così ha detto di chiamarsi, mi parla di tutt’altro, delle contraddizioni insite nei fondamenti stessi della società capitalistica, dell’ingiustizia d’una felicità costruita sulla sofferenza altrui, della sua difficoltà di trovare un equilibrio tra la propria coscienza e la propria insopprimibile necessità di vivere ed essere giovane e felice.
E di tutte queste cose Veronica mi parla senza nessuna paura. E non perché abbia capito chissà come che io la penso esattamente come lei (cosa per altro vera), ma perché, fenomeno sempre più raro, non ha nessun timore di esporre le sue idee, nessun timore che qualcuno possa giudicarla.
Così mi offre esattamente quello che pensa, quello che è, senza nessuna dissimulazione. E, mentre lo fa, io mi innamoro di lei.
E non centra niente il suo aspetto fisico, che pure, come ho detto, è notevolmente piacevole, se mi innamoro di lei è per la sua forza, per il senso di protezione che nonostante l’abbia conosciuta da pochi minuti riesce a farmi provare, per come starle vicino, guardarla negli occhi mentre mi guarda negli occhi, faccia sì che tutte le persone intorno a noi sembrino improvvisamente distanti.
Sto assaporando tutta la pienezza di questo raro momento quando improvvisamente i suoi occhi sgusciano di lato, sul paesaggio che ci scorre veloce accanto, sfocato oltre il finestrino, un paesaggio di cui io, mi rendo conto in quel momento, avevo dimenticato perfino l’esistenza. Poi il suo braccio destro ha uno scatto: inesorabile come il componente meccanico di un orologio; compie tre precisi movimenti e torna al suo posto. Mi sembra quasi di sentirne il rumore.
STUM, STUM, STUM.
Padre, figlio e Spirito Santo.
Compie quel gesto senza smettere di parlare, come se neppure lei se ne accorgesse, come fosse un riflesso pavloviano. Io davanti a quell’azione repentina mi ritraggo. La osservo da più lontano, diffidente, capace ancora di afferrare il suono, ma non più il senso delle parole che sta pronunciando.
Più della sua ormai conclamata fede cattolica, cose verso la quale, in conseguenza di un’ educazione fieramente laica, per non dire apertamente anticlericale, nutro da sempre istintiva diffidenza, quello che mi sconvolge e mi fa fare un passo indietro è l’inaspettata crepa nella cupola di perfezione che le avevo calato addosso.
Qualunque altro particolare stonato (stonato dal mio punto di vista, s’intende) avrebbe probabilmente sortito lo stesso effetto.
Non siamo più solo io e lei, siamo di nuovo in mezzo a tutti gli altri passeggeri del Quarantadue, siamo di nuovo parte di un mondo difettoso.
Osservo ancora Veronica, come se dovessi rimetterla a fuoco, ma anche dalla nuova distanza che questo inconveniente ha messo tra noi i suoi occhi restano ipnotici, le sue mani restano perfette, le sue orecchie continuano ad essere la più dolci tra le tentazioni a cui io mi sia mai ritrovato esposto.
Allora mi dico che forse è il momento di fare un passo avanti come persona e accantonare tutti i miei pregiudizi nei confronti dell’altrui spiritualità, di smetterla di farmi condizionare dagli insegnamenti dei miei genitori e iniziare finalmente a decidere da me cosa mi piace e cosa no, cosa sia bene e cosa no.
In fondo, mi dico, cosa ho pensato solo pochi minuti fa? Che questa ragazza non si vergogna di mostrare le proprie idee. L’ho detto e ho detto anche che questo atteggiamento mi ha fatto innamorare di lei.
Ed è così, non importa quali siano queste idee.
Sono sue, le appartengono e lei non le nasconde, le mostra con naturalezza, quasi a dire: ecco, questa sono io.
Questa, mi dico ancora, è devozione. Si, ecco cos’è: devozione. E non è per niente una brutta cosa, non è un difetto, anzi tutt’altro, è una qualità.
Vorrei poterlo dire di me stesso, mi dico, che sono devoto alle mie idee, a quello in cui credo. E vorrei poterlo dire senza dubbio della persona che ho accanto.
Mentre elaboro le mie conclusioni Veronica lo fa un’altra volta.
STUM-STUM-STUM
Il braccio meccanico scatta all’improvviso, mentre un campanile ci sfila accanto e si perde poi all’orizzonte, oltre il finestrone posteriore del mezzo pubblico.
Questa volta però seguo passo passo il percorso disegnato dalla sua mano e ne apprezzo la precisione quasi chirurgica. Questa volta mi abbandono all’ammirazione del senso di sicurezza e al tempo stesso della naturalezza di un gesto che fa parte della sua stessa identità, che le appartiene così tanto che può farlo indipendentemente da qualunque altra attività stia compiendo.
Benedetto sia il giorno in cui potrò dire anche io di aver fatto mia in maniera così totale un’idea. Qualunque essa sia. Probabilmente non questa, un’altra, magari su argomenti e posizioni completamente differenti, ma che importa? La capacità di farlo è quello che conta. Essere le proprie idee, questo conta.
Sì, ecco che cosa vorrei, vorrei vivere con una donna che abbia il dono della devozione, non importa a cosa. Possibilmente a me, ma non è fondamentale.
Sì, mi piace quello che ho visto fare a Veronica, questa meravigliosa ragazza. Mi piace chi crede in qualcosa.
Mi piace la devozione.
Mi avvicino di un passo, ristabilisco la distanza che avevamo all’inizio, e le sorrido. E anche lei mi sorride, smette di parlare e mi sorride, guardandomi.
Sono quasi del tutto convinto di volerla sposare, quando Veronica volta leggermente la testa verso destra, offrendomi la visione celestiale della geometria del suo delizioso orecchio. Pronuncio il suo nome, facendo in modo che il suono esca dalla mia bocca e voli dritto verso di lei.
Veronica ha un brivido, i muscoli del suo collo hanno un fremito, lei si volta di nuovo, mi fissa. Io voglio baciarla, qui, ora.
Poi passiamo acanto a un’altra chiesa e il suo braccio scatta di nuovo – STUM, STUM, STUM – in automatico, mentre siamo occhi negli occhi.
Allora faccio un altro passo indietro e mi ritrovo alla giusta distanza per capire. Capisco e faccio ancora un altro passo all’indietro e precipito nello sconforto. E smetto di guardare Veronica, perché, ora lo vedo chiaramente, mi stavo completamente sbagliando, ho commesso un terribile errore, un errore di definizione.
Quella che ho appena visto non è devozione.
È telepass.

af