Erano circa le dieci del mattino del 25 dicembre, quando il portone di casa mi si richiuse fragorosamente alle spalle. Sopra la mia testa si stendeva un’unica enorme coperta di nuvole scure e fredde.
Feci la strada dal mio palazzo alla chiesa con il naso all’insù cercando di fiutare le intenzioni del cielo.
Era il 1992 e avevamo tutti tra i quattordici e i sedici anni.
Furono le campane a darci il via libera: la gente si accalcava in chiesa e fuori, intorno al campetto di terra battuta, non restava nessuno.
Solo noi, quattordici piccoli umani brufolosi, pronti a farsi la guerra.
La stavamo preparando da tanto, quella sfida, l’avevamo sognata, temuta e rinviata parecchie volte, ma ora, finalmente, era venuto il momento: noi del Canaletto, la Banda del Canaletto, contro quelli di Via Prosperi, un campo da calcio, un pallone e più nessuna scusa.
In casa mia, mia madre armeggiava ai fornelli ininterrottamente dalla sera prima: tortellini in brodo, lasagne al pesto, cappone bollito, sformato di carciofi e faraona farcita. Nemmeno una cosa che mi piacesse, come ogni anno.
Le dissi che uscivo per andare a messa con gli altri. La cosa la sorprese, ma non al punto da insospettirla.
Nemmeno quando mi vide varcare la porta con lo zainetto mi chiese niente. Si raccomandò soltanto di tornare prima che cominciassero ad arrivare i parenti, che non stava bene che io non fossi in casa a ricevere gli ospiti e, per dio, che almeno una volta le dessi retta, non come al solito che non ubbidivo mai.
Dissi “ciao” e uscii. Il gelo mi era già arrivato alle ossa quando raggiunsi il campetto dell’oratorio. Sembrava dovesse nevicare da un momento all’altro. Gli altri sei della banda erano già lì.
Carlo, che dall’alto dei suoi sedici anni e del suo barbour originale era indiscutibilmente il capo, mi disse: “Alla buon ora, coglione!”. Poi aggiunse: “tu stai fisso in difesa”. Non ebbi niente da obiettare: ero il secondo più scarso della squadra, quindi la mia collocazione era abbastanza scontata.
Meno abile di me nel gioco del calcio c’era solo Daniele, ma lui, con una mossa molto astuta, si era autorelegato in porta, guadagnandosi in questo modo la gratitudine di ogni membro del gruppo per averlo sollevato dal fastidio di dover ricoprire tutti, a turno, quell’odiato ruolo.
Scavalcammo la recinzione e ci cambiammo a bordo campo, rischiando l’assideramento.
Mentre indossavamo le nostre magliette bianche, vecchie fruit of the loom racimolate in qualche cassetto, buone ormai giusto come pigiama, Carlo distribuiva consigli su cosa fare durante la partita.
I nostri avversari arrivarono tutti insieme, come un battaglione dell’esercito. Avevano tutti la stessa tuta e sotto, lo vedemmo quando dopo aver scavalcato anche loro la recinzione se le tolsero con movimenti sincronizzati, sfoggiavano la divisa da gioco della locale squadra di calcio, militante in serie C, regalo del padre di uno di loro, amico di un dirigente.
Quando fummo tutti schierati e pronti ad iniziare, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia. Carlo, che era pur sempre il capo, oltre che il nostro attaccante, si voltò verso di noi e disse: “si gioca lo stesso”.
Nessuno obiettò, nessuno aveva intenzione di tirarsi indietro.
Era un vero capo, Carlo: dava solo ordini che tutti volevano già rispettare.
Le disposizioni tattiche, ad esempio, si era ben guardato dal definirle “ordini”; le aveva chiamate “consigli”.
E infatti nessuno le rispettò.
Da che la partita ebbe inizio non facemmo altro che correre tutti dietro il pallone, come un branco di pesci che si avventano su un pezzo di pane.
La pioggia aumentò e ben presto il terreno di gioco si tramutò in una gigantesca palude fangosa.
Io non capivo quasi nulla: ogni pallone che mi arrivava vicino lo calciavo ostinatamente lontano, senza guardare, più forte che potevo. Pregando che non tornasse mai più indietro.
Più la palla resta lontana dalla mia porta – pensavo con scarsa logica calcistica – meglio sto difendendo.
Ci furono gol, falli, pali, traverse e accenni di rissa, da una parte e dall’altra. Tutti opera di altri giocatori.
Io avevo un obiettivo diverso: non combinare particolari disastri che mi facessero scendere ulteriormente nella scala gerarchica della banda.
E attraverso una disciplinata applicazione stavo riuscendo perfettamente nel mio intento.
Finché non scoccò mezzogiorno.
In quel momento, dopo un’assurda girandola di gol fortunosi e rocamboleschi, stavamo vincendo per una rete di scarto. Mancava poco alla fine, che sarebbe stata inesorabilmente decretata dall’uscita dalla chiesa del custode Gino che scoprendoci a giocare senza aver pagato il campo ci avrebbe cacciati a male parole.
Era in realtà molto strano che non fosse ancora successo, evidentemente in chiesa le cose andavano per le lunghe.
In ogni caso il fatto che fosse già passato tanto tempo dall’inizio, non sembrava rappresentare un grosso problema per nessuno.
Tranne che per me.
Il rintocco proveniente dal campanile mi paralizzò. E, cosa ben peggiore, tramutò la figura del pallone, fermo in una pozza di fango a pochi passi da me, nel volto di mia madre.
La vidi proprio lì, con la testa che usciva dal terreno e urlava rimproveri nei miei confronti per le condizioni nelle quali ero ritornato a casa, mi ricordava che cattivo figlio e che costante delusione fossi e che di me non ci si poteva proprio fidare, lo aveva detto lei.
“Calciala!” urlavano i miei compagni.
“Calcia via quella cazzo di palla!”, ordinò Carlo, che era pur sempre il capo.
Ma io come potevo calciare la faccia di mia madre?
Così la calciò Alessio, l’attaccante della squadra avversaria, segnando il gol del pareggio.
Fu come svegliarsi la mattina, correre sotto l’albero e non trovare i regali, ma un bigliettino con su scritto: “Ciao, sono Babbo Natale. Sì, esisto, ma da te non ci vengo!”
“Coglione! – mi qualificò Carlo – maledetto, stupido, inutile, dannoso coglione!”
Furono tutti d’accordo.
Il risultato di parità, inaccettabile per tutti, fece scattare l’applicazione della più antica tra le regole del calcio adolescenziale: chi fa questo ha vinto.
Ci stavamo giocando tutto insomma, ma a me non importava più.
Qualunque cosa fosse successa io sarei uscito comunque dal campo sconfitto.
E sarei arrivato ancor più in ritardo.
Quando il gioco riprese decisi che mi sarei tenuto il più lontano possibile dal pallone. Non avrei commesso nessun altro errore. Che se la sbrigassero loro.
Così quando i nostri avversari guadagnarono un calcio d’angolo non andai a difendere la mia porta, assediata da tutti i giocatori avversari, ma mi tenni a distanza, al centro del campo, immobile, le braccia conserte.
La palla partì dall’angolo e salì alta nel cielo. Io la osservavo da lontano, incapace di capire cosa desideravo: se fosse entrata in porta la partita sarebbe finita e sarei potuto correre a casa, ma avremmo perso. E sarebbe stata per la maggior parte colpa mia.
Sarei stato per l’ennesima volta l’incapace, stupido, dannoso, inutile coglione che non ce lo vorremmo mai portare dietro, ma è nato qui e lo conosciamo fin da bambino, che possiamo fare?
Mi sedetti per terra, nel fango, piangendo.
Avrei voluto soltanto che quel pallone non scendesse mai, che si bloccasse a mezz’aria e restasse lì, sospeso sopra la porta come la stella cometa sopra la capanna del presepe.
Però quella palla nel cielo non ci rimase, scese. Ma non entrò nella nostra porta: toccò terra in mezzo all’area di rigore e qualcuno la colpì, fortissimo, facendola volare ancora più in alto, lontano.
La vidi venire nella mia direzione, sorpassarmi, irraggiungibile, schiantarsi in una pozzanghera e lì fermarsi. A cinque metri da me.
Mi alzai e andai lentamente verso il pallone. Era solo un pallone, non la testa di mia madre. Gli diedi un calcio, per farlo uscire dalla pozza d’acqua.
Rotolò in avanti.
Lo guardai.
Poi guardai la porta avversaria.
Tra me e l’altro portiere non c’era nessuno.
Gli diedi un altro calcio e cominciai a correre, forte, tanto quanto non avevo mai fatto, verso la porta. Inseguito da tutti: dagli avversari e dai miei compagni di squadra.
Per una volta, sentii di essere io quello importante, quello col destino in mano, per la prima volta ero io ad avere quello che tutti volevano. Avevo paura, ma non avevo scelta.
Corsi, molto più di quanto il mio cuore voleva che facessi. Corsi fissando solo il pallone che rotolava davanti a me. Era tutto quello che non possedevo, quel pallone, tutto quello che non avevo il coraggio di chiedere e tutto quello che non sapevo fare. Era mia madre che mi preparava il mio piatto preferito e mi faceva una carezza. Era mio padre che mi comprava un motorino e mi guardava andare via, orgoglioso. Ero io che trovavo il coraggio di prendere la mano di Chiara, i miei amici che mi facevano una festa a sorpresa.
Erano i baci con la lingua.
Corsi oltre quello che le mie gambe potevano, oltre il freddo, la pioggia e la solitudine.
Corsi, lontano da tutto.
Corsi, finché ci fu solo il portiere avversario davanti a me, cattivo, enorme, migliore di me, infinitamente grande e degno di essere amato sopra ogni cosa.
Colpii il pallone, chiudendo gli occhi, con tutta la forza che avevo.
Il portiere si tuffò, ma troppo tardi. La palla lo superò. Si diresse verso la porta.
Prese in pieno il palo.
Non fui sorpreso: non sono mai riuscito a fare qualcosa per bene fino in fondo.
Se mia madre fosse stata seduta sulla tribunetta di assi di legno e tubi di ferro avrebbe scosso la testa, dicendo tra sé e sé: “come al solito”.
Poi però successe una cosa che non mi aspettavo.
La palla mi tornò tra i piedi. Il portiere era ancora a terra: tirai di nuovo. Feci gol.
Gli avversari, ormai a pochi passi da me si fermarono di colpo, sconfitti, dei robot senza batterie.
I miei compagni invece no. Mi arrivarono addosso tutti insieme, mi travolsero, finendo con me nel fango, stretti in un abbraccio soffocante e appiccicoso.
Gridavano: “Bravo!”
Perfino Carlo gridava: “Bravo!”
Avevamo vinto la partita. Avevo vinto la partita.
Mi fecero festa per qualche minuto, mi lanciarono in aria due volte, mi diedero pacche sulle spalle e sulla testa, poi ognuno riprese i suoi vestiti e se ne andò verso il suo pranzo di natale.
Tornai a casa che era la mezza passata. Aprii la porta e feci due passi dentro l’appartamento, lasciando impronte fangose sul parquet.
I parenti erano già tutti arrivati.
A mia madre venne una crisi isterica. Urlò esattamente come l’avevo immaginata, strillò che ero il peggior figlio del mondo e che di me non ci si poteva proprio fidare e andassi subito a fare una doccia che era meglio, sennò le prendevo pure. E davanti a tutti.
Non mi importava, che dicesse quello che voleva, io avevo vinto la partita.
Per me quella volta, per la prima volta, fu Natale.

af