Il vento di maestrale trascina via le nuvole della tempesta; passano velocemente, si sovrappongono e si separano, lasciando intravedere squarci d’azzurro intenso. Cade ancora qualche goccia di pioggia.
Cade e si asciuga, non lascia traccia. Passa.
Passa quasi ogni cosa, il maltempo, gli anni, le ferite. Quello che non passa è il ricordo.
Forse l’ho sentito dire proprio da te: i cattivi ricordi avvelenano tutto, perfino l’amore.
Non pensavo che fosse vero. Non così tanto.
L’altro giorno ho baciato Chiara. Siamo finiti a letto, ma è stato triste. A un certo punto l’ho fatta girare. L’ho presa da dietro, perché non vedesse che stavo piangendo. L’ho colpita più forte che potevo, tenendola per i capelli. Alla fine le mie lacrime le scivolavano sulla sua schiena inarcata. Non se n’è accorta, o ha fatto finta di non accorgersene, non lo so. In ogni caso sono sicuro che non le sia piaciuto. E nemmeno a me.
A me non piace più niente. Mi sembra di non sentire più nulla, come se fossi morto anch’io, quella notte. A volte immagino che sia andata proprio così, come in un film dalla trama banale: sono morto e non lo so, continuo a camminare tra i vivi, ma incapace di ogni emozione, un fantasma al contrario, non incorporeo, ma senz’anima. A volte lo immagino con tanta energia che quasi ci credo.
Se poi capita che smetta di credere di essere un fantasma, che mi dica che è solo un’enorme stronzata, è grazie al dolore. Quello lo provo ancora. Se chiudo gli occhi, anche solo per un istante, rivedo tutto: il muro che si avvicina, si ingigantisce, si gonfia come una vela di calcestruzzo; sento di nuovo il rumore.
Non mi abbandonerà mai quel rumore. Il boato, secco e compatto, del botto, il sibilo della lamiera che si alza e arriccia e si richiude su se stessa come un’onda. E passa la carne. Poi le urla. Le tue urla, sempre più deboli, i rantoli pieni di sangue. Poi un tempo vasto e vuoto, prima delle sirene. E il silenzio, il ronzio insopportabile di un silenzio irreale, presente solo nella mia mente, dove nessun suono esisteva più, perché nessun suono aveva importanza.
Non mi abbandonerà mai il rumore, sai?
Ti ho portato questo, è un libro di Delillo, body art, penso che ti sarebbe piaciuto. Te lo lascio qui, insieme agli altri, anche se lo so che non puoi allungare fuori una mano come uno zombie e prenderlo, e leggerlo. Lo so che non parleremo mai più, non ci scambieremo più pareri banali su dischi e romanzi. Lo so che non mi dirai più che non capisco un cazzo.
Non è per vederti risorgere che sono qui. Non è per te. Sono qui solo per me, credo, per far finta che qualcosa abbia un senso. Sono qui perché non so dove stare e a volte penso che vorrei essere dove sei tu, sotto questa lastra di marmo.
I morti li amano, sai? Saresti sorpreso di quanta gente è venuta al tuo funerale, la chiesa era stracolma. Piccola, ok, ma stracolma. Molti aspettavano fuori.
I morti li amano, i sopravvissuti no.
Soprattutto se erano loro alla guida e si sono addormentati.
La cosa buffa è che ora non dormo praticamente più, se non dopo aver preso medicine a manciate, che mi portano in un buio spesso come velluto. Mi sveglio più stanco di prima.
Non so per quanto potrò durare.
Non mi perdonano di essere vivo, glielo leggo negli occhi, è così evidente.
E sai una cosa? Hanno ragione; io la penso come loro.
Tranquillo, non sto pensando di venirti a far compagnia, amico mio, non sarebbe nemmeno giusto. Troppo facile, troppo banale, forse vigliacco.
A volte ci penso, sì, quando mi fa male qui, al centro, all’altezza dello sterno, più o meno dove credo stia il cuore.
Quando succede sai cosa vorrei? Vorrei essere scalzo. E poi vorrei frugarmi nel petto, infilarmi una mano nel petto, come se la mia carne fosse marcia, e tirarlo fuori il mio cuore. Vorrei tenerlo davanti a me e guardarlo battere e poi, piegando lentamente il polso verso il basso, vorrei lasciarlo scivolare sul palmo e farlo cadere a terra davanti a me. Vorrei macchiare di sangue piccoli fili d’erba, ecco cosa vorrei. E poi fare un passo e schiacciarlo, sentirlo esplodere con un soffio dai lati, sentire il freddo tra le dita dei piedi, mentre ci passo sopra e lo spengo, come un mozzicone di sigaretta.
Vorrei fare questo, ma non posso.
Allora faccio la cosa che più somiglia a morire: chiudo gli occhi e torno là, su quella strada, rivivo tutto, mi infliggo di nuovo tutto. Scelgo un’altra volta il dolore.
Chiudo gli occhi e ricordo, ascolto.
Soffro.
Ascolto il rumore.
af
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