Aveva appena smesso di piovere, una delle prime piogge consistenti d’autunno. Le gocce pesanti avevano lasciato sull’asfalto una patina d’acqua, che stendendosi su tutto – strada, auto parcheggiate, passeggiata e villette – pareva porre definitivamente fine all’estate. Il cielo, nello spazio vuoto tra il bordo frastagliato delle nubi ormai scariche e la superficie del mare, aveva preso una tonalità giallastra, da tempesta di sabbia. L’autobus procedeva lentamente, quasi svogliato, nel traffico intenso delle otto di mattina.
Io stavo in piedi, tenendomi a un palo con una mano e reggendo il giornale piegato nell’altra. L’articolo che stavo leggendo, distrattamente, disquisiva della difficoltà di far previsioni sull’imminente tornata elettorale. Leggevo senza registrare una sola parola, tra quelle che mi passavano davanti agli occhi. L’andatura altalenante imposta dal traffico e dai semafori, le continue frenate e ripartenze, mi impedivano di concentrarmi.
Poi la vidi.
Una vespa giallo sole, due stivaletti neri, uno sulla pedana, l’altro a contatto con la terra. Polpacci dalla curva allungata, gonna corta nera, giacca di pelle, una sciarpa rosa, occhiali da sole con montatura bianca, in plastica, ovale, esageratamente grande, casco dello stesso colore della sciarpa.
Le labbra, piccolissime, stringevano una sigaretta spenta. Si portò una mano davanti al volto a coprire il vento e con l’altra accese la fiamma dell’accendino. Poi afferrò nuovamente il manubrio, schiacciò la frizione, ingranò la prima, accelerò e partì. La sciarpa rosa sventolava dietro di lei, ondeggiando nel vento come quella di Isadora Duncan un attimo prima di morire.
Era di una bellezza ipnotica. Tutto l’insieme lo era: lei, la vespa gialla, gli occhialoni bianchi, la sciarpa nel vento. Era un’epifania, una piccola crepa di meraviglia nel muraglione della routine mattutina. Una crepa in cui germogliava qualcosa che si sarebbe potuto chiamare vita.
La seguii con lo sguardo, mentre zigzagava tra automobili dalla ripresa lenta, piene di uomini e donne dai riflessi ancora incatramati di sonno.
Provai un senso di profondo dispiacere quando quella piccola macchia gialla uscì dal mio campo visivo. Era come se, a parte lei, tutto il resto del mondo che scorreva fuori dal finestrino, lungo la strada che mi stava portando come ogni giorno al lavoro, non avesse colore.
Al semaforo successivo, per colpa, o per meglio dire, per merito del traffico, l’autobus si affiancò di nuovo a quella visione.
Ne fui felice e al tempo stesso vivevo con ansia l’attesa dello scattare ormai prossimo di un nuovo verde che me l’avrebbe portata via di nuovo.
Sul sedile accanto al finestrino dal quale la ammiravo sedeva una signora bionda che spulciava le vite delle sue amiche su Facebook. Senza nessuna cura per la sua attività mi sporsi in avanti e bussai al finestrino.
Le ragazza della vespa si voltò e mi guardò sorpresa, poi, con mio grande stupore, si tolse la sigaretta di bocca, si sollevò gli occhiali, inclinò la testa in avanti e mi fissò attentamente, cercando probabilmente di far corrispondere nella sua mente il volto della persona che aveva reclamato la sua attenzione, il mio volto, a qualcuno di sua conoscenza. Poi mi sorrise. Un sorriso un po’ imbarazzato, ma largo e bianchissimo, come i suoi occhiali. Il semaforo divenne verde e lei ripartì. Mentre filava via, lungo il fianco dell’autobus, notai un adesivo bianco sul fianco giallo della vespa. Una piccola scritta in corsivo, a caratteri graziati. Il suo nome, supposi: Morgana.
Ora la strada proseguiva ,tra ampie e docili curve, per un lungo tratto caratterizzato dall’assenza di semafori. Anche il traffico andava diradandosi. Mi precipitai verso la testa dell’autobus, spostando con poca gentilezza le persone che incontravo sul mio cammino. Un vecchio con la spesa, un cinese con un grande sacco di tela. Mi maledirono tutti. Un signora abbronzata e magra come una canna di bambù si lamentò a voce alta delle cattive maniere dei giovani d’oggi.
In un’altra circostanza, avendo il tempo di farlo, mi sarei voltato e l’avrei ringraziata per l’attestato di gioventù.
Arrivai davanti, praticamente accanto all’autista che mi diede una rapida occhiata e subito si rimise a fissare la strada davanti a sé.
Per un attimo pensai di dirgli: “La vespa! Segua quella vespa!” Poi non lo feci, mi accostai più che potevo al vetro frontale, pedinando con gli occhi la macchia gialla che trasportava Morgana.
Avrei voluto potermi allungare oltre il parabrezza e afferrare la sua sciarpa e tirarla verso di me, ma delicatamente, senza farle fare davvero la fine della Duncan. Avrei voluto che roteasse come una trottola, come succede nei cartoni animati, verso di me, tra le mie braccia.
L’autobus continuò la sua lenta corsa, fatta di fermate e ripartenze, perdendo inevitabilmente terreno. Morgana fuggiva via, sempre più piccola, verso l’orizzonte tremolante, finché a un tratto non riuscii più a vederla.
Arrivò la mia fermata, nessuno l’aveva prenotata. Notai che sul marciapiede non c’era nessuno in attera e che l’autobus stava acquistando velocità. Decisi di non premere il pulsante di richiesta, e pregai che nessun altro lo facesse. Lasciai che l’autista saltasse la fermata; questo ci consentì di recuperare un po’ di terreno.
Aguzzai la vista e scorsi, in lontananza, piccolissima, una minuscola macchia gialla che svoltava in una stradina laterale, sulla destra.
Solo allora prenotai la fermata. L’autobus si fermò, aprì le porte. Io scesi, saltando entrambe i gradini, e mi precipitai a corsa verso la stradina in cui avevo visto svoltare la vespa: un vicolo stretto che procedeva in ripida discesa lungo il fianco della collina, verso la spiaggia.
Lo percorsi a perdifiato, non c’erano incroci con altre stardine, solo due alti muri di mattoni da ambo i lati, a proteggere possedimenti privati, la vespa gialla doveva essere alla fine di quella strada, Morgana anche. Correndo immaginavo di trovarle entrambe davanti al mare. La vespa parcheggiata, con il casco appoggiato sul sedile. Morgana in piedi, la sciarpa non più svolazzante, ma adagiata alla spalla, cadente sulla schiena. La immaginai fumare un’altra sigaretta guardando l’orizzonte. Cercai di pensare a qualcosa da dirle, rallentai, mi sistemai i capelli sudati come meglio potevo.
La strada finiva nei pressi della spiaggia, due paletti di ferro con una catena, sul lato sinistro un cancello arrugginito delimitava l’inizio della proprietà privata di una villetta in stile liberty in stato di chiaro abbandono. Oltre il cancello, chiuso con tre giri di catena e un vecchio lucchetto, un prato incolto.
Della vespa gialla non c’era traccia.
Tornai verso la spiaggia deserta e bagnata, tronchi e detriti portati dalla mareggiata della notte appena trascorsa, il solito cielo color ambra che avevo visto dall’autobus. Le nubi si stavano allontanando. L’orizzonte tremolava confondendo la fine dell’acqua con l’inizio dell’aria.
Pensai per un attimo al mio lavoro. Mi sedetti su un tronco umido, mi accesi una sigaretta. Osservai il fumo perdersi lentamente nel cielo.
Morgana era svanita.
af
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